Londra, Royal Opera House Covent Garden, “Don Carlo” di Giuseppe Verdi
SEI PERSONAGGI FANNO IL DON CARLO
Grande attesa per il nuovo allestimento di Don Carlo al Covent Garden, assente da vent’anni nel repertorio ed ora riproposto in una coproduzione ad alto budget con il Met e l’Opera di Oslo. Produzione di richiamo che fa il tutto esaurito per il ritorno alle scene di Rolando Villazòn, la scelta della versione in cinque atti, la direzione di Pappano e un cast di beniamini del pubblico londinese.
La regia di Nicholas Hytner è tradizionale e alterna momenti riusciti a soluzioni deboli (come del resto il generico ed essenziale impianto scenico di Bob Crowley, potenziato però dagli efficaci giochi di luce di Mark Henderson) e non riesce a rendere tutti i contrasti, la complessità di relazioni e contenuti di quest’opera straordinaria. Il regista privilegia i destini individuali piuttosto che la trama storica e politica e l’affresco, anziché avere portata epica, scade nel kitsch.
Uno dei pregi è aver inserito l’atto di Fontainebleau, fondamentale per comprendere la vicenda e l’evoluzione psicologica dei personaggi, conferendogli un aspetto da favola assolutamente pertinente. Lo stilizzato paesaggio invernale di alberi ghiacciati immersi in una luce azzurrina che si tinge di viola evoca la magia di favole nordiche con una bella Principessa colta nella sua giovanile leggerezza, unico istante felice di un vissuto che assume presto colori e connotati del sogno.
Un nero sipario dalle finestre quadrate simili a feritoie cala dall’alto separando i destini di Carlo ed Elisabetta, introducendo una situazione bloccata e senza scampo: il mondo oppressivo della Spagna della Controriforma. Da feritoie laterali partono poi fasci di luce che s’intersecano sulla scena vuota e buia dove troneggia la tomba di Carlo V, mentre l’infante si aggira in trance in uno spazio metafisico e fumoso che prelude all’incontro con il “soprannaturale”; le finestre del sipario si tingono poi di rosso per introdurre l’interno del convento caratterizzato da una parete degradante di mattoni rossi che sembrano dei Lego con un’apertura a forma di croce che lascia intravedere un paesaggio assolato e naif di papaveri e cipressi. Peccato che anche il confronto ad alta tensione fra Posa e Filippo, cantato e recitato in modo magistrale, avvenga nello stesso paesaggio di plastica illuminato da una luce fin troppo rossa. L’auto da Fè è il volto sanguinante di Cristo su di un immenso stendardo che prende fuoco lasciando intravedere i corpi di creta carbonizzati e contorti degli eretici accanto a una chiesa barocca d’oro come un tabernacolo che si staglia contro il rosso del cielo. Il rogo “sacrilego” è di forte impatto, ma gli eccessi di realismo nelle grida e nel rumoreggiare della folla e soprattutto l’inutile introduzione di una parte recitata di un gesuita che intima il pentimento a un gruppo di eretici allentano inevitabilmente la tensione drammatica.
Ma lo spettacolo coinvolge soprattutto per l’eccellenza vocale ed interpretativa di tutti e sei i protagonisti e il Don Carlo ritrova i suoi colori, coesione e drammaticità.
Rolando Villazòn è stato sostituito all’ultimo dal giovane coreano Alfred Kim; al disappunto iniziale è seguito un crescente apprezzamento per l’eccellente registro acuto e una voce salda e senza incrinature. Il timbro non è latino ma l’interpretazione è in linea con quella di Villazòn, un antieroe fragile e allucinato, decadente e debole, intenso nel suo smarrimento.
Marina Poplavskaya, promettente cantante del Covent Garden, è una Elisabetta algida e di regale aspetto, la Regina che ha sublimato i moti dell’anima della fanciulla irrequieta, figura altera più di ghiaccio che di fuoco che funziona meglio nel rapporto con Filippo o Eboli piuttosto che nell’amore colpevole. La voce di bel timbro e sottile fraseggio eccelle nel registro centrale, ma rivela limiti nell’acuto.
Da antologia il Filippo II di Ferruccio Furlanetto: la voce è profonda e sonora, vario il fraseggio e ricco di sfumature. E’ lui che regge lo spettacolo, l’uomo di potere, il vecchio, l’uomo innamorato suo malgrado, in cui coesistono ironia, perfidia, regalità, forza e dolcezza. Toccante nel monologo che parte a mezza voce con la mano che sfiora il viso dagli occhi chiusi come in sogno per ripercorrere tutta la stanchezza del vivere ed esplodere in un dolore lacerante, difficile da trattenere, anche per un Re.
Simon Keenlyside non è un baritono “verdiano” , ma la bella voce lirica, la tecnica e l’intelligenza ne fanno un Posa di razza che sprizza nobiltà ed autorevolezza, un “Grande di Spagna “ che illumina la scena con autentico carisma, il figlio che Filippo avrebbe voluto, la figura di riferimento per il debole Carlo . Keenlyside gioca in modo sottile con le ambiguità del personaggio e con l’intrigo di sentimenti che lo lega a padre e figlio, consapevole di essere un polo di attrazione che suscita affetti morbosi e ammirazione al di là della divergenza politica.
Sonia Ganassi offre a Eboli voce raffinata e leggera dalle dinamiche e perfette colorature. Una Eboli priva di caratterizzazioni “infernali “ e velenose colta nella sua impulsività e debolezza, una peccatrice-perdente che rivela la simpatia di Verdi. Bellissimi i passaggi dalla tristezza al gioco, dalla gioia alla delusione così lancinante e improvvisa da giustificare ogni vendetta. Struggente il pentimento, una confessione di schiena davanti a un tabernacolo alla ricerca della purezza perduta.
Eric Halfvarson è un Grande Inquisitore da brivido, decrepito e rattrappito in rossi abiti papali , cieco e pieno di tic, ma per questo non meno terribile e capace di comunicare tutto l’orrore dell’Inquisizione, un misto di gelo e paura.
La fluida direzione di Antonio Pappano esalta la bellezza di suono dell’orchestra e dei solisti (in particolare violoncelli, clarinetto e archi) con una lettura sensibile e acuta, ma un po’ ”prudente” e i momenti forti della partitura non scuotono come dovrebbero. La sua direzione, di grande mestiere e musicalità, non è troppo originale e nel tendere al particolare privilegiando le esigenze dei cantanti perde in tensione teatrale.
Buona la prova del coro, diretto da Renato Balsadonna, in piena sintonia con l’orchestra.
Grande successo di pubblico, con meritate ovazioni a tutti i protagonisti, tenore sostituto compreso.
Visto a Londra, Royal Opera House Covent Garden, il 20 giugno 2008
ILARIA BELLINI
Teatro